Esposizione Internazionale D'arte
Con Partecipazione di Carlo Ciucchi Picchio
“Picchio”, nome d’arte desunto dall’attivita teatrale giovanile di Carlo Ciucchi, trova i suoi natalia Dicomano (FI), comune nel quale ancora oggi risiede e opera. Esortato dal Maestro Paolo Galli, vota la sua vita all’espressione creativa iscrivendosi, dopo il diploma in “Decorazione Pittorica”, all’Accademia di Belle Arti di Firenze e alla Scuola Libera di Nudo, studiando poi anche la scultura. Ha esposto i suoi lavori in diverse mostre estere e nazionali tra cui Procida Capitale della Cultura2022 con un progetto volto alla denuncia delle emergenze ambientali.
La Valle del Mugello percorsa da docili ondulate colline, il refrigerio delle cascate, vaporosee silenti cittadine innevate in un tramonto ovattato. Scrigni di poesie bucoliche, antenne radicate nel cuore della Terra sono gli oli e le tempere del Maestro Ciucchi, captano paesaggi che confluiscono, in un secondo momento, verso gli stilemi mossi e agitati delle opere digitali.
In esse le marine, tratteggiate con tocchi frenetici, sintetici, si leggono quali versi musicali dove ritrovare il sentimento dell’attimo impressionista. La rarefazione si congela successivamente in lucidita, in sculture all’afflato totemico pervase dalle geometrie alla Arnaldo Pomodoro. Scritte in linguaggio misterico, le steli narrano visivamente le sorti intrecciate del tempo; ieri, oggi, domani, sono legati senza soluzione di continuita al medesimo filo del destino.
Alla rigidita delle griglie accennata finanche in pitture murali omaggianti Piet Mondrian, la poetica del Maestro di Dicomano declina verso il particolare.
Le leggi universali dell’astrazione si configurano, mutatis mutandis, in esseri maggiormente realistici, seppure afferenti, alle volte, all’ambito mitologico.
Ecco due meta di Pegaso, giacciono sul suolo terrestre, le ali, un tempo rampanti, cadute verso terra, intorpidite. L’anima anela alla volta celeste sconfinata, eppure permane rigida, impossibilitatà a volare nell’abbraccio del cielo.
Il destriero alato privato delle peculiari qualita, la ripresa della terza stazione della Via Crucis, laddove Gest cadde per la prima volta: tali sono le storie riportate nella purezza del biancore, nella pietra e nei pennelli.
Le narrazioni divengono man mano piti cupe, ferite da un’umanita assente, cieca ai richiami di dolore, alle grida disperate che si alzano attorno a cuori ghiacciati.
Sconvolto e amareggiato, il Nostro incanala la sofferenza nei confronti delle atrocita nell’opera Umanita e migrante esposta in questa edizione de La Biennale di Venezia Arte. L’orizzonte morale e rattristato si concretizza in una preghiera agitata e rigeneratrice, pungente quanto cristallina.
Il giaciglio, primario bisogno di protezione, si offre in diversa veste agli occhi dello stante: é un’arca idealmente guidata da Caronte.
Non é imbarcazione di “cupo colore”, bensi sagomata tomba trasparente attraversata da filo spinato. Il sepolcro di vetro scherma un sonno silenzioso e rabbioso.
Torrenti di persone inermi, anonime, trovano la morte fra le spire del ferro. La distesa d’acqua che giace dinnanzi non concede ristoro, non si pone come via di fuga neppure ai predatori, ormai ridotti a scheletri agognanti.
Ogni luogo é una prigione che non offre strade sicure, futuri rosei, speranze sognanti; perdute nell’ultima visione della vita, le popolazioni terracquee svelano un eterno inverno, una condizione aspramente infausta che è, ormai, realta.
Comitato scientifico del Padiglione Nazionale Grenada Biennale Arte 2024